La necessità dell’azione

Mentre come al solito in Italia continua a tenere banco la sostituzione di Mineo e Chiti in I Commissione del Senato (a proposito, ne dico brevemente qui), dal medio oriente non arrivano di certo notizie rassicuranti. I soldati dello Stato Islamico dell’Iraq del Levante stanno marciando dal nord del paese verso la capitale, Baghdad, in quello che pare essere l’ennesimo atto di una tragedia che dal 2003, non cessa di chiedere il suo tributo di sangue e violenza. Al di là del certificare il fallimento di una guerra costata ai contribuenti americani oltre 3000 miliardi di dollari, questo evento ci fa capire ancora una volta che l’appeasement in cui le diplomazie occidentali sembrano essere scivolate non è certo foriero di situazioni positive.

La verità è che quello che la radice della questione non può che essere ricercata nella questione siriana, che a sua volta, come dice bene Alessandro Carrera, ha strette relazioni con il disastro americano in Iraq. Sono oramai tre anni infatti che lo stato mediorientale vive una realtà di guerra civile permanente. In questo scenario, né l’amministrazione americana, né quella europea, sono riuscite minimamente ad incidere sulle sorti del conflitto, e l’intervento russo è riuscito solo a far organizzare delle sterili conferenze, che in definitiva non sono servite praticamente a nulla.

La crisi siriana ha di conseguenza creato una zona franca in cui sono prolificati i gruppi terroristici (o patriottici, dipende da come la si vede) jihadisti, tra cui è emerso l’ISIS, che ha come obiettivo ultimo la creazione di un Califfato, ossia di uno stato islamico integralista.. La pericolosità di questo disegno pare evidente a tutti, non solo perché come ha detto bene oggi il nostro ministro Mogherini diverrebbe un vero e proprio HUB per i terroristi, ma anche perché si andrebbe ad insediare un fulcro di instabilità in una zona assolutamente nevralgica del mondo, confinante a nord con l’Iran, ad ovest con la Turchia ed a sud con l’Arabia Saudita.

All’orizzonte si prospetta un’inaspettata cooperazione tra due nemici storici, ossia l’Iran e gli Stati Uniti, uniti dalla preoccupazione per la nascita di un soggetto geopolitico tanto vago quanto pericoloso, nonché dalla paura del ripresentarsi di una situazione simile a quella della Siria, ossia di guerra civile permanente, ma su scala molto più larga, in un paese che è tra i primi tre produttori di petrolio al mondo.

Il punto, come al solito, è che l’Europa sta a guardare. E pensare che le nostre possibilità di trovare una partnership con l’Iran, sarebbero estremamente più alte, sia perché dagli iraniani in generale non siamo visti come un male assoluto, sia perché molti paesi, con in testa l’Italia, intrattengono da decenni proficue relazioni commerciali ed industriali con la principale economia del medio-oriente. Certamente il nostro intervento in un momento così delicato segnerebbe un punto di svolta nella geografia delle diplomazie mondiali, soprattutto se gli effetti fossero realmente positivi, e soprattutto se trovassimo il coraggio di parlare francamente davanti al mondo, usando per una volta il linguaggio della Realpolitik, e quindi dicendo chiaramente che non ci possiamo permettere che queste persone vincano, e che di conseguenza si deve mettere in conto di dichiarare pubblicamente che il governo iraqeno di Al Maliki è da sostituire con uno che metta insieme le istanze sunnite e sciite, e che soprattutto Bashar al-Assad è si un crudele dittatore, ma allo stato attuale rappresenta la miglior opzione per il futuro prossimo della Siria.

Lo spazio per intervenire, in sostanza, ci sarebbe tutto, e l’esito positivo dell’intervento ci permetterebbe di ottenere un peso diplomatico da spendere anche nella risoluzione della questione ucraina. Ci sarà anche la volontà?

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